L’auto elettrica corre, l’Italia (per ora) sta a guardare

Dal 2035 l’Unione europea vieterà la vendita di veicoli con motore endotermico, ma nel nostro Paese gli investimenti per far fronte al cambiamento procedono a rilento. Ecco i principali ostacoli da superare.

 

IL CONTO ALLA ROVESCIA È COMINCIATO - Sull’auto elettrica Bruxelles suona la carica e tira dritto: entro il 2035 in Europa è previsto lo stop alla vendita delle auto con motore a combustione. Il Vecchio Continente si candida così a diventare il principale mercato al mondo per le vetture a pile. I costruttori non possono che prenderne atto, rivedendo i loro piani industriali in chiave “green”. Entro il 2030 la Renault prevede che il 90% delle sue vendite saranno modelli a batteria, Volkswagen almeno la metà, Toyota il 30%, Stellantis il 70% in Europa e il 40% in America. L’elettrificazione dell’industria automobilistica richiederà investimenti miliardari, pubblici e privati, per avviare una produzione adeguata di batterie (il 70% oggi arriva ancora dall’Asia), potenziare la rete di ricarica e aumentare la produzione di energia da fonti rinnovabili (altrimenti non si può parlare di “impatto zero”).

NON C’È UN MINUTO DA PERDERE - Sul tema, di grande rilevanza per il nostro paese, la rubrica Dataroom del Corriere della Sera ha dedicato un approfondimento, elencando e spiegando i maggiori problemi che la politica industriale italiana è chiamata a risolvere prima che sia troppo tardi. L’Italia, infatti, sta faticando e non poco a rispettare il calendario stilato dall’Unione europea. Come se non bastasse, con lo stop definitivo ai motori diesel e benzina si perderanno più di 70.000 posti di lavoro. Un vuoto occupazionale che, per essere colmato, richiede un cambio di passo deciso. Il problema è che i tempi sono strettissimi. Oggi in Italia circolano 236.000 auto elettriche, che secondo le previsioni di Bruxelles diventeranno 6 milioni entro il 2030 e 19 milioni entro il 2050. Per alimentarle servirà un’energia tale che oggi, con pochi di assorbimento giornalieri intorno ai 55 gigawatt, metterebbe a rischio la tenuta delle rete.

I SOLDI DEL PNRR HANNO UNA SCADENZA - Un’idea è quella di programmare la ricarica a una certa ora della giornata, con l’auto in grado di gestire autonomamente l’assorbimento a seconda dell’energia disponibile, ma la tecnologia è ancora acerba. A questo problema si collega quello, ben noto, dell’inadeguatezza (anche in prospettiva futura) della nostra rete di ricarica: oggi abbiamo 26.024 colonnine, nel 2030 si prevede di arrivare a oltre tre milioni di punti privati e circa 100.000 pubblici, di cui un po’ più di 30.000 a ricarica rapida. I 21.225 punti che si aggiungeranno a quelli esistenti saranno finanziati attraverso il Pnrr (Piano nazionale ripresa e resilienza): 740 milioni di euro per coprire a fondo perduto il 40% dell’investimento che però vanno spesi entro il 31 dicembre 2025, altrimenti i soldi andranno perduti.

CINQUE GRANDI PROBLEMI ANCORA IRRISOLTI - Volendo sintetizzare, emergono cinque grandi criticità che ostacolano la corsa dell’Italia verso la mobilità emergente: 1) Non esiste ancora una mappa nazionale dei punti di ricarica pubblici: un bel problema in vista della pianificazione delle nuove colonnine legate ai bandi del Pnrr; 2) Oggi il 13% delle infrastrutture, dislocate in 8.000 Comuni, non è utilizzabile, perché la corrente non arriva dappertutto; 3) Sulle nostre autostrade i punti di ricarica sono 90: troppo pochi. Dovrebbero arrivare a 117, uno ogni 50 chilometri, entro il 2023; 4) Installare una colonnina di ricarica nelle aree comuni o nei garage dei condomini è ancora piuttosto complicato: occorre snellire le procedure per rendere agevolare l’operazione; 5) Serve una svolta, infine, anche sugli accordi di interoperabilità, perché oggi collegandosi a una presa di un operatore diverso da quello al quale si è abbonati può accadere che l’auto non si ricarichi.

IL TEMA DELLE GIGAFACTORY - Se si considera che il 40% del valore aggiunto di un’auto elettrica risiede nella batteria, spostandosi sul piano industriale emerge immediatamente un altro problema: il raggiungimento di una capacità produttiva tale da ridurre l’importazione degli accumulatori dai paesi asiatici e creare nuovi posti di lavoro in Europa. La Germania ha già varato progetti per 411 GWh di capacità produttiva installata. Seguono Polonia e Ungheria, dove sono pronti a investire i colossi dell’Estremo Oriente. Più attardata, invece, l’Italia, dove oggi l’unico punto fermo sono gli 8 GWh che Seri Industrial sta cercando di installare con il progetto Faam a Teverola, in provincia di Caserta. Va però precisato che non si tratta di batterie per le auto, bensì per lo stoccaggio di energia domestica, industriale e per il trasporto pubblico. Molto ambizioso il progetto Italvolt a Scarmagno, vicino a Ivrea, in Piemonte: 3,4 miliardi di investimenti, fino a 70 GWh l’anno, inizio produzione fissato nel 2024 e 3.000 posti di lavoro. Al momento, però, non è ancora chiaro chi siano gli investitori e nemmeno chi acquisterà le batterie prodotte. Il tempo, intanto, scorre, e Federmeccanica, Fim, Fiom e Uilm si appellano al premier Draghi, chiedendo al governo di mettere in campo politiche industriali in grado di aiutare realmente la riconversione.

Fonte: ALVOLANTE.IT


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